Oltre ai musulmani, attirati da prospettive commerciali, erano giunti anche numerosi ebrei. Comunità ebraiche fiorirono in tutte le città siciliane. E la nostra cucina subirà profondamente l’influsso delle regole alimentari della “kasherut”, il complesso di norme che rende il cibo “kasher”, cioè appropriato.

In massima parte si trattava di ebrei sefarditi, provenienti dalla Spagna, allora musulmana. E’ da attribuire alle loro abitudini alimentari l’uso di una salsa semplice ed economica: il soffritto d’aglio in olio d’oliva. Fagiolini, broccoli, bietole, cavolfiori e ogni sorta di verdure bollite, trovarono, in quella semplicissima salsa (perché tale è, tecnicamente) una dignità mai conosciuta prima. Le insipide verdure erano diventate piatti stuzzicanti. Quegli antichi Ebrei ci insegnarono a non buttare mai nulla. Ecco perché di una pianta apparentemente insignificante, come la zucca, utilizziamo proprio tutto: foglie, fiori e frutto, perfino i semi essiccati e salati, diventano un economico passatempo.
A causa delle norme coraniche, prima, e delle regole della “kasherut” poi, i frutti di mare lasciarono, per secoli, indifferenti i siciliani. Agli ebrei, al contrario dei musulmani, era invece concesso di bere vino. Purchè fosse kasher, naturalmente. Ancora oggi, nelle città dove ci sono comunità ebraiche, i negozi di prodotti alimentari allineano sui loro scaffali anche bottiglie di vino “appropriato”, con tanto di certificazione di conformità.

Uno dei piatti più famosi creato dagli ebrei palermitani fu proprio il pane con la milza! “U pani ca’ meusa” è inoltre un tipico esempio di tradizione gastronomica italiana nel campo del cosiddetto “cibo da strada”, precursore dell’odierno fast food! Questa pietanza dal successo ormai millenario, è di esclusiva tradizione palermitana e consiste in una panino morbido (da alcuni chiamato anche “vastedda”), che viene imbottito con pezzetti di milza, di polmone e di trachea del vitello. La milza, il polmone, ma anche la trachea per alcuni, vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, soffritti brevemente nello strutto (o “sugna”). Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato (e in questa variante prende il nome di “pane ca’ meusa maritato”) oppure semplice, senza alcuna aggiunta al di là dei suoi componenti principali, e perciò in questo caso viene detto “schietto”, ovvero “celibe”. L’origine si fa risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non potendo, per loro stessa fede religiosa, percepire denaro per il proprio lavoro, trattenevano come ricompensa le interiora che cucinavano come farcitura per il panino. Quando gli Ebrei vennero cacciati da Ferdinando II di Aragona detto il cattolico, questa attività venne continuata dai caciottari palermitani, che acquistavano direttamente al macello milza, polmone e trachea. In realtà, il consumo di interiora, particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione da parte del popolo. Ma il pane con la milza a sua volta serviva agli ebrei, per vendere ai “gentili”, cioè ai cristiani, tutto quello che era stato dato a loro come compenso per il loro lavoro di macellatori!