La cucina siciliana, vista sempre alla luce della storia, va considerata, tra quelle regionali italiane, verosimilmente la più varia, dal momento che è in effetti diversa, talvolta anche profondamente, da provincia a provincia. Ciò a causa della più o meno incisiva influenza, da luogo a luogo, delle dominazioni straniere che vi sono succedute, specialmente dagli Arabi in poi; ma anche in virtù delle varie posizioni geografiche (aree interne, località di collina, di montagna, costriere…), delle differenze climatiche e naturalmente delle produzioni locali.

Le caratteristiche gastronomiche di Palermo, per esempio, appaiono improntate ad accentuati “contrasti di sapore” e ad una qual certa fastosità, da un lato per la intensa presenza araba, dall’altro per essere stata la città nei secoli capitale e sede di corti reale e vicereali. Anche nel trapanese la cucina risente al quanto dell’influenza araba. Nel siracusano, invece, ed anche nel ragusano, si riscontra una cucina più semplice, e per così dire, di impronta contadina.

A Messina, come negli altri centri costieri, nella gastronomia domina il pesce, ma non solo. Variano poi sensibilmente le abitudini alimentari tra centri montani, collinari e di pianura, e ovviamente tra paesi e città.

Attualmente, però, la cucina siciliana non presenta più come un tempo molte difformità da luogo a luogo: è in sostanza più uniforme e senz’altro, occorre dirlo, in parte “inquinata” da alimenti, condimenti e aromi importati d’oltremare. Proprio per questo non sono inutili tutti quei tentativi, purché filologicamente corretti, di ricuperare originarie consuetudini alimentari delle varie zone dell’isola, per rendere un servizio utile alla storia delle tradizioni siciliane e per restituire alle generazioni di oggi sapori antichi ormai smarriti.

In questa antica cucina prevalgono, com’è ovvio, i piatti a base di pesce, data appunto la posizione della città dello Stretto. Principalmente il pescespada e lo stoccafisso.

Lo stoccafisso fu conosciuto dai Messinesi, in epoca difficilmente precisabile, sicuramente attraverso i naviganti nordici e norvegesi in particolare che approdavano nel porto di Messina, un tempo il più importante della Sicilia, frequentato da navi di ogni parte del mondo. I Norvegesi pescavano il merluzzo nei mari del nord e lo seccavano al freddo e al vento gelido. Lo commerciavano poi, e da loro in riva allo Stretto si apprese la maniera di ammollarlo e di nettarlo convenientemente dalle spine, operazioni queste che richiedono molta abilità ed esperienza, e che i rivenditori messinesi sanno fare a regola d’arte.

La pesca del pescespada oggi si effettua ovunque, ma una volta era esclusività dei pescatori dello Stretto che la praticavano da epoca immemorabile, servendosi di apposite imbarcazioni: le feluche, grosse barche fisse, di posta, munite di un alto albero su cui stava un uomo che scrutava il mare in cerca della preda, e i luntri, agili barche a remi, su cui era il fiocinatore, che inseguivano il pesce segnalato dalla vedetta, fino a poterlo colpire. Oggi la pesca è in parte attiva nello Stretto. Per essa però si utilizzano grosse imbarcazioni a motore, le passerelle, dotate di un albero a traliccio dove si colloca la vedetta che dall’alto manovra la barca, dotata appunto di una lunga passerella che sporge da prua, su cui si apposta il fiocinatore (cfr. ROCO SISCI, La caccia al pescespada nello Stretto di Messina, Messina, 1984).

Con il pescespada e il pescestocco si ottengono rinomate specialità esclusive dello Stretto. Perciò le relative ricette hanno nel libro adeguato spazio. Sono presenti naturalmente anche quei piatti caratteristici, a Messina un tempo ritenuti “rituali”, la cui preparazione era quasi obbligatoria in occasione di alcune scadenze festive: per esempio, la pasta ‘ncaciata, per Ferragosto, o il ciusceddu, per Pasqua, o i pituni, per l’Annunciazione.