Era il mese di giugno dell’827 quando i musulmani giunsero in Sicilia,sbarcarono tra Marsala e Campobello di Mazara, lungo il tratto meridionale della costa trapanese.

La storia della nostra alimentazione stava per fare un enorme progresso tanto che, ancora oggi, traiamo benefici dalla cultura di quel popolo.

Furono i musulmani a farci conoscere lo zibibbo, un vitigno che veniva di là dal mare, da Cap Zebib, in Tunisia.

E pensare che non bevevano. “Unica vera pecca dell’Islam…” come osservò Ernest Hemingway.

Malgrado ciò, sarà stato il gusto della trasgressione o l’attrazione forte per uno dei piaceri della vita, furono numerosi i poeti arabi di Sicilia che cantarono le gioie del vino assieme all’incanto dell’amore di una donna. Chissà, forse non facevano che anticipare in terra ciò che era loro promesso nel paradiso: un luogo incantato dove scorrono fiumi di latte e di un vino inebriante, che però non intontisce. E le flessuose Hurì sempre vergini recano datteri, miele e melograni e tutt’attorno prati verdi, tappeti colorati e tanti fiori. Una meraviglia, specialmente per chi, in vita, aveva conosciuto le durezze della vita nel deserto e sognato acqua fresca e cristallina.

Fu così che il Corano assurse a legge, anche alimentare, in Sicilia. Vietati i suini, gli animali morti di stenti o maltrattamenti, via i crostacei, i pesci predatori, in compenso non mancarono mai le verdure e gli ortaggi, i legumi, la frutta fresca e secca. Arrivarono i cetrioli, le melanzane, i pistacchi e le carrube, gli asparagi, i gelsomini e lo zafferano, i chiodi di garofano, il muschio e la canfora, finanche un particolare tipo di fagiolo coltivato nei territori della “Mezzaluna fertile”, corrispondente alla zona che comprende Siria, Libano ed Egitto. Il resto del mondo, invece, dovrà attendere che Colombo li porti dall’America…

Fu quello per la Sicilia un periodo aureo. L’isola era il centro del mondo allora conosciuto, il cuore del Mediterraneo, e godette dei vantaggi di tutti i traffici che toccavano i suoi porti.

Dalla semola nasce il cuscus

Gli arabi, veri maestri dell’arte molitoria, crearono la semola dal grano duro introdotto in Sicilia e base del celebre cuscus, alimento principe della loro alimentazione. Nel Maghreb lo si prepara guarnendolo di carne di montone o di pollo. Ma poiché i musulmani sbarcati in Sicilia erano tunisini della costa e, quindi, pescatori, da noi lo fecero con il pesce. Oggi, come allora, si può assaggiarlo a Trapani, anzi è il piatto tipico di quella città di mare.

Arriva anche la pasta!

Si dice cuscus e si pensa subito alla pasta. Fu intorno al 900 che, a Trabia, nelle vicinanze di Palermo, fu impiantato il primo stabilimento per la produzione di “ytria”, lo spaghetto, in arabo, da cui si vuole derivi pure il nome del paese,e “tria” si chiamò in siciliano.

La Storia dice però che fu Marco Polo a portarceli dal lontano Catai, alla fine del 1200: i siciliani, in ogni caso li mangiavano già da trecento anni.

Numerosi documenti attestano l’esportazione della pasta siciliana nelle “Calabrie”, termine che indicava non soltanto la Calabria, ma anche Puglia, Basilicata e Campania.

E di pasta si nutrirono tutti i siciliani: ricchi e poveri, nobili e plebei.

Fu piatto democratico ed ecumenico per eccellenza, svolse, chiedendo venia per l’accostamento con il sacro, una vera funzione evangelizzatrice.

Pare che dobbiamo al cuoco di un generale arabo, Eufemio, l’invenzione di quello che è uno dei più conosciuti piatti siciliani: la pasta con le sarde. Nelle intenzioni di quel brav’uomo, si trattava di sfamare le truppe, attestate attorno a Siracusa, con un piatto unico e sostanzioso. I finocchietti selvatici servivano a smorzare il tanfo delle sarde non proprio fresche, e contro l’intossicazione alimentare ci misero i pinoli conosciuti come antidoto nella medicina popolare. Dal punto di vista organolettico un unicum assolutamente perfetto: i carboidrati della pasta, le proteine del pesce ed i sali minerali della verdura in perfetta armonia.  Fu quello il primo piatto “mari e monti” della Storia.

Per gli scettici aggiungo in calce una citazione da fonte storica che rivendica la nascita dello spaghetto proprio in Italia ed in Sicilia:

“A ponente di Termini vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, [..] e vasti poderi nei quali si fabbricano i vermicelli in tale quantità da approviggiorarne quei territori [..] mussulmani e cristiani, dove si spediscono grandi quantità.” (Al- Idrisi “Il Libro di Ruggero”)

Cassate e sorbetti: dolcezze da “mille e una notte”

Proprio nel periodo più dolce della sua storia, la Sicilia conobbe la dolcezza dello zucchero di canna. Avevamo utilizzato, fino ad allora, soltanto il miele, sicchè chiamammo quella canna “cannamiele”. Lo zucchero, impastato con la ricotta di pecora, fu la base della odierna cassata, un curioso nome nato da un malinteso: “quas’at” si chiamava il pentolino di rame dove si impastava la ricotta e non certamente il contenuto. Forse non è vero niente e si vuole invece che il nome venga dal latino “caseatus”, cioè un dolce fatto con il cacio di pecora, che è appunto la ricotta.

Ma ha poca importanza. La cassata siciliana è sinfonia di sapori, opera d’arte effimera creata per nutrire il corpo, ma anche lo spirito. E’ un pezzo di Sicilia offerto agli occhi e all’anima: un’immagine di voluttà: mangiatene una fetta ed avrete in bocca un pezzo di storia di quest’isola.

Alla perenne ricerca di frescure, i musulmani avevano escogitato una bevanda zuccherina, aromatizzata dalla cannella, dalla vaniglia e dalla frutta fresca. A base di latte o acqua, era congelata poi con la neve delle montagne. “Sharbat” chiamarono quella preparazione ed il sorbetto sarà il padre dei nostri gelati…

E per chiudere, un bel caffè!

Ci credereste? Anche il caffè giunse in Sicilia ben prima che la Serenissima repubblica di Venezia lo commercializzasse. Gli arabi lo chiamarono “qawah” mentre, più tardi, per i Turchi fu il “qahvé”. Da questi imparammo a prepararlo e ci piacque talmente che divenne velocemente la nostra bevanda nazionale. Gli arabi continuano a prepararlo nel modo tradizionale che consiste nel far bollire insieme acqua, zucchero e caffè in un pentolino chiamato “ibrik” (da cui il nostro “bricco”), dopodichè quando la polvere del caffè si è depositata al fondo, si aggiungono delle spezie, come il cardamomo, e si beve.

A noi siciliani, abituati al caffè con la moka e ancor di più  all’espresso fatto al bar, l’antica ricetta araba non sempre dà grande soddisfazione. Ma non possiamo esimerci dal tributare un doveroso riconoscimento a questo antenato, che ha tanto contribuito ad allietare le nostre giornate!